Lettera Nº 3: COMICOTERAPIA (1)
(Inviata il 4 febbraio 2000)
SOMMARIO
§ Perché si ride?
§ Il buon vecchio Freud
§ Super-Io
§ La spazzatura emotiva
§ Il sintomo nevrotico
§ Il motto di spirito
§ faccio ridere, quindi creo...
§ La commozione inversa
§ Il dualismo cerebrale
§ Funzioni acquisite
§ Il dualismo cerebrale
§ Il pensiero laterale
§ Ridendo si apprende meglio!
«Quelle che sanno apprezzare il comico si palesano come nature superiori .saldi e sicuri in se stessi, contro ogni insuccesso e perdita.»
Hegel
«Uomini! Avete in mano il futuro della specie umana!»
Anonimo, scritta sul muro di un orinatoio londinese
Un fenomeno così variegato come il ridere non poteva sfuggire all’analisi del padre della psicoanalisi. In un saggio del 1905 il grande viennese enuncia la sua teoria sulla motivazione del ridere in chiave energetica...
Nell’ottica freudiana, è risaputo, la personalità umana è divisa in tre parti: l’inconscio o Es, l’Io, e il Superio.
Sinteticamente, usando una metafora spaziale, diremo che all’interno dell’inconscio si trovano contenuti in parte innati, le pulsioni più antiche, la sessualità, l’aggressività, l’istinto auto conservativo, e contenuti rimossi come bisogni, desideri, angosce, fantasie. Nello spazio dell’Io si collocano il pensiero vigile, le funzioni coscienti, la memoria, la percezione, la coscienza e l’elaborazione dei contenuti psichici.
Il Superio ha un ruolo censorio sull’Io, è l’autosservazione, la coscienza morale, l’idealità: nasce nel rapporto con l’esterno, in primis con la famiglia (e poi con la società), tiene conto delle richieste e dei divieti di queste istituzioni e si sviluppa come un precipitato di norme e comportamenti sociali.
Spesso, molto spesso, Es ed Io entrano in conflitto a causa di certi contenuti emotivi spiacevoli, sentimenti aggressivi (verso gli altri e verso noi stessi), desideri o bisogni che generano angoscia, che sembrano non appartenerci e di cui ci vergogniamo o verso cui proviamo sensi di colpa.
Questo accade perché l’Io non sa come accogliere quelle pulsioni e di conseguenza, semplicemente, le nega, le rimuove. La rimozione assomiglia a quell’operazione che talvolta compiono le colf negligenti, pronte a nascondere la spazzatura sotto il tappeto pur di sbrigarsi.
Eppure questa <spazzatura emotiva> tende a riaffiorare, ed è necessario impegnare una certa dose di energia per tenerla a bada. Questo sforzo continuo è defatigante e la mente ha escogitato dei percorsi per esprimere quei contenuti angosciosi in forma mascherata: il sogno, il lapsus, l’atto mancato, il sintomo nevrotico sono alcuni dei mascheramenti di questi contenuti inconsci. Se, per esempio, in un impeto di autolesionistica generosità, abbiamo promesso alla nostra petulante vicina di innaffiarle i fiori durante le vacanze e una sera proprio non abbiamo voglia di farlo, potrà capitarci di smarrire momentaneamente le chiavi: magari sono li, sulla consolle, ma noi non le vediamo. È questo il caso dell’atto mancato.
Se siamo innamorati della sorella di nostra moglie (che razza di fardello da portare!), difficilmente ci concederemo di vivere questa passione, ma facilmente la cognata si presenterà nei nostri sogni, magari sotto le sembianze di un’altra persona... il Superio appare gabbato e non riesce a esercitare le sue funzioni censorie; l’incontro tra inconscio e Io è avvenuto su un terreno di mediazione. Se il sogno è invece troppo chiaro, innesca una certa dose di angoscia, allarma il Super-io che ci costringe a svegliarci.
Un altro canale di espressione dei contenuti inconsci è il sintomo nevrotico:
All’improvviso, per esempio, un manager non riesce più a prendere l’aereo. C’è una sorta di difficoltà dal separarsi e l’aereo diviene il simbolo del distacco. In genere questi casi sono la spia di antichi legami di attaccamento ansioso: la persona, nell’infanzia, può essere stata trascurata dalla madre e aver sviluppato un forte senso di angoscia, che, sepolto per tutta la vita, all’improvviso e in determinati contesti esce fuori a manifestare la stessa angoscia inespressa di allora. È chiaro che il manager non comprenderà questa esperienza ansiogena: l’Io non conosce la causa, non riesce a vedere quella primigenia ferita che l’inconscio, implacabile, ha fatto riaffiorare. La persona vive il conflitto senza possibili vie d’uscita.
Un ulteriore terreno di mediazione tra le componenti della nostra mente è quello che più ci interessa: il motto di spirito o witz. Freud lo definisce come «un atto creativo liberatorio».
La battuta istituisce ex novo (per questo è creativa) un canale di sfogo: colpisce e LIBERA l’energia che impegniamo nel tenere sotto controllo qualche nostro contenuto inconscio. Questa liberazione dalla tensione e il rilassamento che ne consegne provocano piacere.
In ogni battuta c’è un contenuto psicologico latente e un contenuto manifesto. Prendiamo per esempio questa storiella, il cui contenuto manifesto è il seguente:
«L’ultima volta che sono entrato in una donna è stato quando ho visitato la statua della libertà...»
Woody Allen
Il contenuto latente della battuta sta nel fatto che il buon vecchio Woody non riesce ad avere rapporti sessuali. Egli non dice esplicitamente: «Io non sono in grado...» ma spinge l’ascoltatore al riso, mediante una metafora. Egli libera l’energia che serviva a tenere immobilizzato il suo contenuto inconscio, e questa liberazione, che si esprime attraverso il riso, provoca piacere, il piacere di essersi liberato da un peso.
In realtà, dietro il motto di spirito di Allen c’è molto di più. Se questa battuta è fatta in presenza di una donna essa appare come un garbatissimo, divertente (e quindi molto efficace) messaggio relazionale. Ma di questo ci occuperemo più avanti.
Freud compie alcune distinzioni all’interno della categoria dell’umorismo. Egli distingue lo spirito di parola, cioè il cambiare senso a un vocabolo, sfruttandone altri significati, oppure spostandolo all’interno del discorso, oppure ancora adoperando il contesto della storiella per cambiargli di senso.
Per esempio:
“Un commerciante si accorse che l’ora della funzione religiosa era vicina, così, dopo essere andato frettolosamente in bagno ed essersi dimenticato di tirar su la cerniera dei pantaloni, pregò un amico di badare al negozio fino al suo ritorno. Una volta in chiesa si sedette accanto a un signore che, osservatolo, lo apostrofò sottovoce:
«Mi meraviglio di lei! Venire in chiesa con la bottega aperta!»
«Se guarda meglio», lo fulminò il commerciante, «ci vedrà anche il commesso!»
Diverso è lo spirito di pensiero che agisce sull’intera proposizione, come:
«A New York c’è un pedone investito ogni tre minuti... poveraccio, non fa neanche in tempo a rialzarsi!»
Achille Campanile
Di questa categoria fa parte anche il <non sense> all’interno del quale, arbitrariamente, si sposta l’attenzione dell’ascoltatore verso pensieri marginali, assurdi, solo apparentemente accostabili tra loro. Memorabile, come esempio, un famoso elenco borgesiano.
Gli animali si dividono in:
Appartenenti all’Imperatore.
Imbalsamati.
Domestici.
Lattonzoli.
Sirene.
Favolosi.
Cani sciolti.
Inclusi nella presente classificazione.
Che si comportano come uomini folli.
Innumerevoli.
Disegnati su pelle di cammello con un pennello di pelo finissimo.
Eccetera.
Che si sono appena rotti una gamba.
Che, a distanza, sembrano mosche.
Freud distingue poi il <witz ingenuo> da quello tendenzioso che ha a che fare con l’aggressività, il razzismo, il cinismo, la deviazione, il sesso. Sono gli argomenti sui quali, in genere, è maggiore il controllo del Super-io.
Un mendicante bussa alla porta di una villa. Alla porta appare una ricca signora.
«Per favore, avrebbe un po’ di pane?»
E la donna: «Avete fame al punto che mangereste il pane di ieri l’altro?»
«Magari! Non mangio da tre giorni!»
«E allora torni dopodomani che glielo darò»
Gino Bramieri
“Non ho nulla contro le donne soldato. Mi domando soltanto che cosa avverrebbe se il nemico sguinzagliasse sul campo di battaglia alcuni topi.”
“Sono contrario ai rapporti prima del matrimonio... fanno arrivare tardi alla cerimonia!”
Mario Zucca
Secondo Freud questo tipo di motto di spirito è molto vicino all’infanzia, periodo in cui le prescrizioni sociali sono più sfumate e si è comunque meno coercibili. Fare battute su questi argomenti serve moltissimo anche ad alleviare la mente dal continuo dominio delle facoltà logiche e critiche.
FACCIO RIDERE, QUINDI CREO... È PROPRIO COSÌ SEMPLICE?
Abbiamo constatato che, di tutti i terreni d’incontro tra le diverse componenti della mente umana, aventi la finalità di dare sfogo ed espressione ai contenuti inconsci, il motto di spirito è l’unico ad avere una valenza relazionale, di comunicazione di quel contenuto verso l’esterno, in maniera diretta, senza sublimazioni. Negli altri casi si tratta di momenti strettamente privati, mentre nel witz si può intravedere un pezzetto dell’anima di colui che lo compie, un atto di sincerità verso la persona che ascolta; in ultima analisi si tratta di un piccolo, significativo atto d’amore. Tende, infatti, oltre che a esprimere il proprio contenuto latente, anche a smascherare positivamente, rivelare maieuticamente il medesimo contenuto nell’ascoltatore, in funzione di una divertita purificazione.
Questa valenza catartica del ridere e del far ridere spiega anche perché alcune persone non comprendono l’umorismo o un certo tipo di battute, come quelle, per esempio, a sfondo sessuale. Per capirle, infatti, c’è bisogno della partecipazione della persona a livello sia emotivo sia razionale. Anzi, è questo razionale che autorizza l’accoglienza del contenuto latente e permette la partecipazione emotiva. Se l’ascoltatore ha dei problemi legati al sesso (un Superio troppo invadente, segrete e troppo inconfessabili pulsioni...) potrà non ridere alla battuta, o addirittura scandalizzarsi... Se, al contrario, riderà, la comunicazione tra lui e il narratore sarà sincera, profonda e intimamente empatica.
In questa succinta disamina del pensiero freudiano abbiamo volutamente tralasciato, finora, la creatività, che pure, assieme all’umorismo, rappresenta il più alto momento di incontro tra pulsioni inconsce, Io razionale e mondo esterno.
Nell’opera d’arte possono legittimamente essere rappresentate tutte le contraddizioni dell’animo umano, che vi trovano sublimazione e ragion d’essere, persino necessità. Se l’artista non fosse percorso da un turbinio di emozioni contraddittorie, difficilmente la rappresentazione di esse potrebbe trovare persone recettive a quel certo messaggio.
Alcuni autori includono l’umorismo nel grande magma della creatività. A noi questa commistione appare riduttiva.
Se da un lato infatti è vero che creatività e umorismo nascono dalla stessa matrice, come finora dimostrato, gli effetti dell’uno e dell’altra sul produttore e sul fruitore sono sensibilmente diversi.
L’arte può portare alla commozione (etimologicamente cum moveo mi muovo insieme, provo lo stesso moto dell’anima), mentre l’umorismo e la comicità recano un altro stato d’animo, una commozione inversa, una sorta di partecipazione e presa di distanza allo stesso tempo, un’ambigua e ambivalente sensazione di essere dentro e fuori l’oggetto del riso, di aderire e discostarsi contemporaneamente da esso, un moto genuinamente pirandelliano.
La Venere del Botticelli, la Nona di Beethoven, le rime dell’Inferno dantesco, certe immagini cinematografiche di Kurosawa possono portarci egualmente alla gioia o al pianto, ma è quello che può avvenire davanti ad alcuni (e forse più intensi ed emozionanti) fenomeni della natura: un’alba, i colori dell’autunno, la delicatezza di un’orchidea, un corpo amato.
Nell’umorismo, a nostro avviso, si compie un passaggio in più: quello di immedesimarsi e contemporaneamente astrarsi dall’oggetto del riso; esso è analizzato, interiorizzato e l’attimo dopo superato ed espulso.
C’è, in questo, anche un’affermazione di superiorità e la coscienza del contrario; il ragionamento potrebbe essere questo:
«In quanto uomo sono migliore di qualsiasi rappresentazione di me. Sono un prodotto della natura, ma anche un prodotto di me stesso.. Ma, poiché, in effetti sono cosi fragile, la mia pretesa superiorità è davvero ridicola...»
Se si pensa poi a quali effetti relazionali, comunicativi, psicosomatici e spirituali è in grado di scatenare la risata, si avrà il quadro completo del valore assolutamente prioritario e irrinunciabile di questa modalità espressiva.
L’aver relegato la comicità e l’umorismo tra i generi minori dell’arte, con la scusa che si ride soprattutto della corporeità e quindi degli istinti più bassi, è stata un’operazione culturale delittuosa, ben studiata da una certa morale dominante, sia religiosa sia laica.
Ma non c’è molto da recriminare: è insito nel fenomeno del ridere che esso, da arma incruenta qual è, possa suscitare avversione, paura, rimorso...
La convinzione che vi siano due forme o generi di pensiero è stata espressa attraverso numerose e tipiche contrapposizioni dualistiche: razionale ed emotivo, yin e yang, femminile e maschile... Queste acquisizioni apparentemente solo culturali hanno basi fisiologiche nella struttura dell’encefalo umano.
Esso è principalmente formato da due emisferi, quello destro e quello sinistro, uniti tra loro da una parte centrale fibrosa, il corpo calloso.
L’emisfero destro comanda principalmente la parte sinistra del corpo, cosi come quello sinistro la destra.
Le due metà sono strettamente specializzate e hanno un modo specifico di funzionare.
L’emisfero sinistro è in grado di ricostruire l’intero partendo dal particolare; può rappresentare quell’intero astrattamente, pur non conoscendolo del tutto; lavora per sequenze: è dunque logico, numerico, razionale. Usa simboli come rappresentazioni; interpreta in ordine lo scorrere del tempo (prima-dopo); per esprimere usa le parole. Sue prerogative sono, dunque, il linguaggio, la scrittura, il calcolo.
Al contrario, l’emisfero destro comprende il tutto come insieme delle parti; rappresenta le cose come sono attualmente; coglie le relazioni nello spazio; intuitivo, usa sensazioni ineffabili, metafore; irrazionale, non cerca ragione nei fatti, percepisce le strutture d’insieme e non ha il senso dello scorrere lineare del tempo, comprende i segni del linguaggio non verbale.
Fondamentale è sottolineare che tutte queste funzioni non sono innate, ma frutto di specializzazioni acquisite. Questo fu scoperto allorquando, per tentare di limitare i danni delle scariche di epilessia, ad alcuni soggetti affetti dal piccolo male venne reciso il corpo calloso, la massa di fibre che mette in comunicazione le due metà dell’encefalo.
Si scopri in seguito che, in un neonato, ogni emisfero ha la capacità di sviluppare entrambe le modalità cognitive. Vi sono casi di persone nate con gli emisferi completamente indipendenti. Intuitivamente, dinanzi a una siffatta conformazione della centrale operativa del nostro organismo, ci viene da pensare che la società, così come gli occidentali la concepiscono, è frutto più della parte sinistra dell’encefalo che non dell’emisfero destro.
I neurologi, infatti, fino a pochi anni fa erano certi che la parte più importante fosse quella sinistra: è evidente che si tratta di una falsa concezione, del tutto culturale, eppure funzionale al controllo dell’emotività, allo sviluppo della razionalità, della serietà (intesa anche come pensiero seriale).
Nell’ipnosi, per esempio, vi sono persone più o meno sensibili ai trattamenti d’induzione: quelle che sanno sospendere l’influenza del giudizio critico e hanno la capacità di lasciare spazio all’emisfero destro ottengono, con questa tecnica, notevoli benefici.
L’emisfero destro è in grado di trovare nessi laddove apparentemente non esistono. Esso elabora immagini grezze che vengono poi rielaborate dalla parte sinistra, anche in funzione dell’esperienza già posseduta.
Ma avere esperienza di qualcosa è davvero sempre utile? In altri termini, davanti a un problema dato, la procedura standard (quella che già conosciamo o quella che ci viene indicata dalla consuetudine) è sempre un buon paradigma da seguire?
Se è vero che l’intelligenza si costruisce mettendo in sequenza le esperienze maturate, è pur vero che, davanti a un nuovo problema, è l’emisfero destro che può fornirci soluzioni adeguate.
È possibile, in altri termini, affrontare il problema con fantasia, e questa risoluzione di fantasia potrà essere frutto di un collage di diverse esperienze proprie o altrui, oppure di un’intuizione completamente nuova, una sorta di illuminazione.
In questo senso l’immaginazione e la fantasia possono essere definite come arte di passare in rassegna e abbinare tra loro memorie passate per creare qualcosa di nuovo.
Al contrario, modi di pensare standardizzati alla lunga impoveriscono la mente, irrigidiscono il pensiero in una innaturale fissità funzionale.
In questi casi è necessaria una completa ristrutturazione del campo, una riorganizzazione generale dei rapporti che regolano la nostra percezione di situazioni e persone.
In una parola, bisogna vangare il nostro modo di pensare, per rifiutare le abitudini, gli abiti mentali preconfezionati, andare al di là di quello che viene insegnato.
Sono necessari momenti di rottura, nei quali non ci si deve più soffermare sulle dicotomie (sì-no; giusto-sbagliato), ma è necessario dar valore a elementi in apparenza irrilevanti del nostro problema.
Questo comporta evitare la sicurezza apparente dell’ovvio, oppure modificare le istruzioni ricevute, magari utilizzando elementi non congrui, come l’errore, la casualità e l’umorismo, appunto.
Questa somma di precetti viene oggi chiamata pensiero laterale, che appare necessario quanto quello verticale. Integrato ad esso dà forma al pensiero multilogico o creatività di analisi. Un esempio di questo processo ci viene proprio da uno dei nostri laboratori.
A un’insegnante di scuola media, Giulia M., venne affidata una prima, che definire vivace era, più che un eufemismo, una bestemmia. il suo approccio al caos che regnava in classe era il solito: tentare di sovrastare il baccano con la propria voce, mettere note, cacciare fuori qualcuno. - Le cose sembravano mettersi bene li per li, ma dopo poco si tornava daccapo.
Affrontammo, durante il laboratorio, il problema del pensiero laterale.
L’indomani Giulia si trovò nella medesima situazione e stava per cedere, quando ebbe un’idea: comportarsi al contrario dì quanto normalmente era solita fare. Si sedette in cattedra e restò impassibile, in silenzio, inespressiva davanti alla torma di diavoli che dapprima si eccitarono di più, ma poi, lentamente, si chetarono completamente, ponendosi mille domande: «Che cosa succede? Perché la prof non grida? Cosa c’è sotto?
Che scherzo è questo?» Dieci minuti di silenzio erano stati più utili di mesi di urlacci.
La classe fu domata e i benefici di quella trovata di rottura continuarono nel tempo.
Cambiare l’orizzonte mentale
L’umorismo, la comicità e il riso, che essi suscitano, sono potentissimi elementi di ristrutturazione del ‘campo internò, una vangatura profonda della nostra forma.
Alla base della produzione, comprensione e accoglienza della battuta di spirito sta un completo mutamento del proprio orizzonte mentale che culmina con un insight (illuminazione). Un’operazione che consente la creazione di una nuova e originale struttura nella quale gli elementi sono completamente riorganizzati.
L’umorismo rappresenta, così, una formidabile opportunità per ribaltare situazioni problematiche, ansiogene o addirittura angosciose, operando una ristrutturazione completa del nostro essere in quelle situazioni.
Se il capoufficio è troppo incombente, persino l’uso dell’autoironia può servire, allo scopo di mutare il nostro rapporto di sudditanza.
L’esempio di Villaggio-Fracchia (antesignano di Fantozzi), tiranneggiato dall’impareggiabile Gianni Agus, può dimostrare come, pur nell’autocontrizione, nell’annullamento completo dell’autostima, chi risulta alla fine veramente giudicato e condannato è proprio il capoufficio vessatore, messo alla berlina nella sua incrollabile cattiveria. Ridiamo di Fracchia per sconfiggere Agus.
Negli anni Sessanta lo psicologo Arthur Koesfler definì bisociation il meccanismo alla base della comprensione dell’umorismo. Questa doppia associazione è, dunque, l’operazione in cui si sovrappongono e contemporaneamente si distinguono due differenti sistemi di riferimento, abitualmente incompatibili; nei calembour (freddura basata su un gioco di parole, vedi pag. 188) si ha una perfetta esemplificazione di questo.
“Che differenza c’è tra lo scaldabagno e un politico? Nessuna: se si toglie la resistenza, in fondo resta solo il bidone...”
“Il colmo di una forchetta? Commettere sciocchezze pur essendo posata.”
Iniziare a considerare il linguaggio come qualcosa di plasmabile e giocoso può rappresentare un buon approccio al cambiamento che si vuol perseguire.
Il nostro stato di coscienza normale è costituito da modelli
ordinari di esperienze, ricordi, associazioni. In questo sterminato panorama di abitudini mentali, i momenti creativi, anche piccoli, sono fratture all’interno dei modelli.
La nuova esperienza, questo lampo di creatività, può essere considerata come l’unità di base del pensiero originale e dell’intuizione, come pure del cambiamento della personalità.
Quando la nuova esperienza è associata a uno stato emotivo particolare (nel nostro caso una mente umoristica oppure ebbra di riso) le nozioni, i rapporti, le situazioni restano incisi molto in profondità: in una parola, l’apprendimento si rafforza moltissimo.
Quelle situazioni, rapporti o nozioni vengono poi rievocati ogni volta che viviamo uno stato emotivo simile a quello originario.
Se, per esempio, non ribattiamo al direttore del personale, nonostante egli sia in torto, lo si deve al fatto che il nostro vissuto è di totale subalternità: questo ci provoca fenomeni e sintomi psicosomatici come irritazione, sudorazione, stomaco contratto. La modalità di sottomissione è il frutto di un apprendimento che risale probabilmente alla nostra infanzia, e quelle sensazioni fisiche sgradevoli sono riflessi di tracce mnestiche, come se il corpo ricordasse i passati rapporti con l’autorità, nei quali siamo stati perennemente sconfitti.
Capovolgiamo l’esempio.
Se, davanti a un atteggiamento irritante del capo, abbiamo la prontezza di fare una battuta, ribaltiamo subito gli elementi in campo, come si è precedentemente visto e, contemporaneamente, leghiamo la nostra esperienza di affermazione sull’autorità a uno stato emotivo umoristico.
Gino Bramieri della categoria in oggetto raccontava una semplice battuta:
«Papà, che cos’è un capoufficio?»
«È un uomo come tutti gli altri, solo che lui non lo sa.»
E Totò, dal canto suo, partendo dalla famosa filosofia degli uomini e dei caporali, dichiarava:
«Se un pover’uomo sbaglia, e può capitare a tutti perbacco, c’è sempre un caporale che se ne approfitta. Maledetti caporali!»
Questo stato mentale fa, dunque, sì che quell’esperienza resti profondamente incisa dentro di noi: apprendiamo una nuova modalità di associazione tra pensiero cognitivo e stato emotivo e alla prossima occasione, rievocando lo stesso stato emotivo, rievocheremo quell’affermazione di noi, quella piccola vittoria.
Abbiamo creato un nuovo comportamento, una nuova risposta al mondo, un’esperienza da utilizzare in altri momenti della nostra vita: sperimentando la creatività umoristica ciascuno acquisisce nuove informazioni su nuovi comportamenti.
BIBLIOGRAFIA
§ (1) Sonia Fioravanti e Leonardo Spina - La terapia del ridere - RED